Storia

Nel 1981, durante i lavori di urbanizzazione di questo quartiere, la ruspa affondò la benna in un deposito geologico del Pleistocene medio, sopravvissuto all'opera di distruzione del tempo e alle azioni dell'uomo antico e moderno.

La Soprintendenza Archeologica di Roma fermò i lavori ed iniziò uno scavo che durò ben cinque anni (dal 1981 al 1986) ed interessò un’area di oltre 1200 mq. Il giacimento consisteva in un tratto dell'alveo di un antico fiume, colmato, nel tempo, da ghiaie e sabbie, all'interno del quale furono raccolti circa 2.200 resti ossei, oltre 1.500 reperti litici ed un frammento di cranio umano, trascinati e deposti dalle acque del fiume.

Parte dell’area di scavo degli anni ’80, oggi compresa nello spazio museale

L'importanza della scoperta spinse la Soprintendenza a programmare la conservazione del sito.

Un compromesso tra le esigenze di tutela e quelle di viabilità portò ad una variante del Piano Regolatore Generale, che, con il parziale spostamento della strada, permise la conservazione di circa 300 mq. di deposito.

Nel contempo venne apposto un vincolo a protezione dell'area archeologica.

Alla fine dello scavo, il sito fu protetto da una copertura provvisoria, in attesa della vera e propria musealizzazione. La realizzazione dell'attuale edificio ha avuto diverse fasi, legate alla discontinua erogazione di finanziamenti da parte di diversi Enti ed Uffici.

Nel 1996 la Soprintendenza Archeologica affidò al Comune di Roma (Sovrintendenza ai Beni Culturali) la gestione dell'area ed il compito di musealizzarla.

I lavori di costruzione della grande copertura sono stati completati nel 2000. Nello stesso anno sono stati eseguiti importanti interventi di restauro, poiché il giacimento era stato soggetto ad atti di vandalismo e ad occupazioni abusive.

Nel 2007 un accordo col Municipio V (oggi IV) ed il Servizio Giardini del Comune di Roma, ha permesso di ampliare l'area esterna con l’obiettivo di realizzarvi un giardino, dove collocare essenze vegetali tipiche del Pleistocene medio, tra cui alcune riconosciute nel deposito. Gli altri lavori di allestimento e di sistemazione degli esterni sono stati compiuti a partire dal 2006 ed hanno permesso le attuali realizzazioni.

Il giacimento di Casal de' Pazzi è l'ultimo di una serie di siti pleistocenici ormai scomparsi.

A partire dalla metà dell’Ottocento, il territorio in cui ci troviamo era caratterizzato da grandi cave per l’estrazione di materiali da costruzione necessari ai cantieri della città in espansione. Inoltre venivano costruite nuove strade e ferrovie. Si mettevano così a giorno antiche stratigrafie.

Questa situazione era ideale per gli studiosi di Geologia e Paleontologia che qui raccoglievano numerosi fossili, provenienti da strati vulcanici o di origine vulcanica, prodotti dalla intensa attività del Vulcano Laziale (attuali Colli Albani) durante il Pleistocene.

Spesso alla base era visibile il Tufo litoide, deposto intorno a 360.000 anni fa, che compone buona parte delle colline romane. Al di sopra, si osservavano depositi di sabbie ghiaie e limi di natura fluviale. I ritrovamenti sono stati di diversa entità e consistenza, ma formavano, nell'insieme, un complesso territoriale che, ancora oggi, ha pochi paragoni. Nell'ordine di scoperta, le località interessate sono: Ponte Mammolo, Monte delle Gioie, Sedia del Diavolo, Saccopastore, Ripa Mammea. Nessuno di questi siti è sopravvissuto, poiché tutti sono stati distrutti dall’espansione della città.

L’unica testimonianza ancora visibile è proprio il giacimento di Casal de’ Pazzi.